mercoledì 25 ottobre 2017

Non ci riesco

In quasi quarant'anni di insegnamento non ho mai conosciuto un ragazzo che non desiderasse applicarsi per cercare di raggiungere l'obiettivo richiesto.
Il problema non è mai "non ne ho voglia". Il problema è sempre  "penso che non ne sarò capace". 
Un pensiero che nessuno rivela mai all'esterno. Bisogna che sia io ad intuire e a chiedere "pensi di non essere capace vero?" E la risposta è sempre uguale: "Sì". 
Non importa cosa abbia innescato il meccanismo autobloccante... Importano solo le due cose da fare per sbloccarlo: 
1° "ipnotizzare" la sua mente con la certezza che io so che ci riuscirà;  
2° "spezzettare" la consegna con indicazioni così precise che sia impossibile non ottenere il successo seguendole alla lettera.
Solamente il successo sarà in grado di fargli cambiare idea riguardo la difficoltà delle richieste e  la propria incapacità di eseguirle.

martedì 24 ottobre 2017

Visualizza nel sito IFOA il corso di aggiornamento per docenti "Gestire e motivare la classe" di cui sono relatrice.

lunedì 23 ottobre 2017

Meditando

Penso che fino a quando ci sarà un modello di perfezione davanti agli occhi della folla, nessuno tra la folla potrà sentirsi in pace con se stesso.
Chi potrà mai arrivare ad essere così simile alla perfezione richiesta? Uno? Due...? E gli altri?
E quei due, come potranno sentirsi così separati dagli altri? In una torre d'avorio?
E' vita la separazione costante? Separato dalla perfezione...Separato dall'imperfezione...E' vita?
In Mt 20, 1-16 il Padrone non fa differenze tra i primi e gli ultimi. Non c'è un podio preferenziale, perché non è stato posto nessun modello di riferimento. Neppure temporale, dato che non giudica quanto tempo siano rimasti nella vigna.
Non c'è scala di giudizio perché non c'è modello di profitto, né richiesta di profitto.
Sì, Gesù addita un modello, se stesso come modello, ma di comportamento: mite e umile. Per il Padrone della vigna (strano per un padrone non menzionare il profitto), il riferimento è aver lavorato: aver agito, aver usato il proprio corpo e la propria mente per fare.
In questo modo sono livellati primi e ultimi. Con la stessa livella che in natura chiede ad ognuno solo l'azione dell'essere: agisci da albero, agisci da gabbiano, agisci da mare, agisci da terra... agisci per ciò che sei chiamato ad essere.
Lo sai che l'istinto vergine di tutti i ragazzi è quello di gareggiare per il solo divertimento di stare insieme? Sapere che alla fine non ci sarà un 1°, un 2°, e un 3° li riempie della libertà di essere se stessi, e perciò di gioia.
Fino a quando la mente è vergine è il fare che conta. Il fare insieme a te. Perché da solo è bello, in due è meglio.
Santa Madre Teresa, "matita di Dio", è stata azione in risposta ad un mandato. Così come il Padrone aveva chiesto solo azione ai vignaioli.
Perché tutti noi siamo continuamente alla ricerca di additare il primo, e il secondo... e l'ultimo?

mercoledì 18 ottobre 2017

Motivare

Perché i ragazzi a scuola si annoiano? Perché non hanno nulla da fare se non ascoltare, ascoltare... impegnarsi, impegnarsi... senza un riscontro immediato.
Ma se noi dicessimo: “Adesso giocheremo a bowling e segneremo quanti birilli sarete riusciti a buttare giù” vedreste come si sveglierebbero subito tutti, entusiasti dal primo all'ultimo.
Nel loro “One Minute Manager” K. Blanchard e S. Johnson affermano che “il feedback sui risultati è il pane dei campioni” perché “la principale motivazione umana sta nel vedere il risultato delle proprie azioni”. Il risultato positivo però, attenzione! Il numero dei birilli che ho buttato giù mi appaga, non il n° di quelli che ho lasciato in piedi!
Valutare subito la parte positiva della performance di un ragazzo è come dire a chi ha lanciato : “Sei riuscito a buttare giù 4 birilli!” Avrà voglia di provarci di nuovo con ancora più determinazione.

I ragazzi hanno bisogno, e desiderano, e trovano soddisfazione nel percepirsi soggetti agenti alla scoperta delle proprie capacità. Desiderano essere valutati perché in tal modo il loro apprendere assomiglia maggiormente a quell'agire capace di soddisfare il desiderio di vedere “la propria impronta nella sabbia”1.
La loro applicazione alla consegna ricevuta acquista un senso perché produce qualcosa di concreto ai loro occhi: la valutazione immediata.
Qualunque lavoro esige una remunerazione. A maggior ragione il faticoso lavoro intellettivo dell'apprendere deve soddisfare l'esigenza del ragazzo di averne un riscontro. Non è differente da qualunque altro tipo di lavoro che attenda ricompensa. 
Non basta al presente del ragazzo l'informazione che lo studio “gli servirà per il futuro”, non stimolerebbe all'azione qualunque mente “logica”, figuriamoci questa digital generation, come la definisce lo psichiatra V. Andreoli2, composta di giovani che non vivono oltre lo stimolo presente, incapaci di elaborare strutture mentali in grado di traghettarli da qui al futuro.
Dare consegne con obiettivi raggiungibili in 10 minuti allora, può fare la differenza. L'ha fatta nella mia esperienza sicuramente. Ho insegnato ai miei ragazzi che migliorare significa mutare il risultato del mio impegno intelletto-motorio non in un mese di allenamenti, ma in non più di cinque/ dieci minuti. 
Solo cinque/dieci minuti, perché è tutto il tempo di cui abbiamo bisogno affinché la mente osservi quanto ottenuto, indaghi criticamente l'operato e richieda aggiustamenti.
A patto naturalmente che siano state messe in atto dal soggetto le due strategie di cui non possiamo fare a meno: la concentrazione e l'auto-osservazione3
La capacità di andare al centro delle mie facoltà investigative per poter indagare criticamente su ciò che sto producendo è il perno su cui poggia tutta la costruzione dell'apprendere. La consapevolezza che mi sarà detto, tra 10 minuti, quanti birilli sono riuscito a buttare giù, è uno stimolo in grado di spingermi a voler utilizzare un tale perno. E, inoltre, una volta che l'avrò usato e trovato produttivo, sarò sicuramente maggiormente interessato a usarlo ancora, e ancora, con sempre maggior dimestichezza .

1 La sola cosa che conta non è forse scoprire ogni giorno chi siamo?
2 Articolo “Adolescenti digitali” del 9/1/2011 del Corriere della sera
3 Proprio quelle che vengono lasciate in cantina da chi non ha motivazione al fare.

lunedì 16 ottobre 2017

Autostima

Nathaniel Branden, psicoterapeuta americano che ha dedicato la vita allo studio 
di questo argomento, definisce autostima :

1.la fiducia nelle nostre capacità di pensare e 
di superare le sfide fondamentali della vita;

2.la fiducia nel nostro diritto al successo ed alla felicità,
nel nostro diritto di affermare le nostre necessità e desideri,
di realizzare i nostri valori e goderci i frutti dei nostri sforzi;
la sensazione di valere e di meritare tutto questo.


Nel suo libro I sei pilastri dell'autostima, Branden spiega che 
la stima di sé è la conseguenza di sei pratiche fondamentali 
che possono essere generate solo dal soggetto stesso,
 ma anche incoraggiate e sostenute dall'esterno.

Le sei pratiche fondamentali sono :

la pratica di vivere in modo consapevole
la pratica dell'accettazione di sé
la pratica del senso di responsabilità
la pratica dell'affermazione di sé
la pratica del darsi un obiettivo
la pratica dell'integrità personale






giovedì 5 ottobre 2017

La sindrome da AF

Tratto dal mio libro "Costruttori di fuori serie..."

Nessun uomo può dirsi libero
se non è padrone di sé stesso.”
Epitteto

La sindrome da AF


Secondo la psicanalisi ignorare il proprio sé modella individui non in grado di distinguere tra l’immagine di chi credono di essere e l’immagine di chi effettivamente sono, predisponendoli alla depressione, al senso di vuoto e all’assenza di sentimenti. In un articolo del Corriere del 2011, lo psichiatra Vittorino Andreoli ha definito i nostri adolescenti degli “empiristi che agiscono senza progettare l'azione e senza nemmeno chiedersi quali ne siano il senso e le conseguenze.” Fragili adolescenti “digitali” che, impregnati di esperienza virtuale, “vivono il tempo come una frammentazione di attimi presenti”, incapaci di coltivare rapporti duraturi. Portati a cercare emozioni nuove e sempre più intense, fino a generare violenza, perché privi di sicurezza interiore.
Ogni giorno i media stigmatizzano per noi i danni provocati dalla fragilità psichica: lo stalking, i tentativi caleidoscopici di divenire qualcuno diverso da sé, la violenza domestica, la movida alcolizzata... Ma perché nessuno riesce ad eliminare la causa di tutto questo?
Perché la causa siamo noi : una società educante che sì, teorizza, ma poi non realizza situazioni idonee allo sviluppo dell'auto-conoscenza e dell'auto-stima degli educandi affinché possano costruire un adeguato rapporto con il proprio sé.
Il luogo primario dell'educazione, la Scuola, non attua nessun piano, strutturato e continuativo, predisposto espressamente a questo scopo.
A che serve etichettare con una generica “crisi dei valori” la motivazione del disagio sociale, quando il 40-60%1 dei miei alunni di ogni classe di prima media dimostra una profonda insicurezza e comunica una serie di ricordi feriti della propria autostima, mai rivelati prima ad alcuno e perciò mai cicatrizzati?
Più di un terzo degli adolescenti di ogni classe presenta scarsa energia vitale a causa di una sindrome etero/autoindotta che ostacola la strutturazione del sé e inibisce le autentiche potenzialità individuali. Io la chiamo sindrome da Autostima Fallata.
All'interno di una maggioranza che già procede di classe in classe ignara di possedere talenti originali, un notevole numero di alunni si trascina zavorrato dalla convinzione erronea (più o meno consapevole) di essere privo delle capacità intellettive richieste. Oltremodo zavorrato quando questa percezione carente di sé si colora di una “non appartenenza” sociale o/e affettiva rispetto al gruppo dei pari.
Psicologicamente fragili e perciò ancor più assetati di attenzioni e consensi, se non sollecitamente curati da educatori validi, si trasformeranno in poco tempo in millantatori di visibilità. Continuamente a rischio di trasformare cibo, denaro, partner, alcool, fumo, pasticche, sesso, gioco, violenza... in placebo ai quali aggrappare le proprie zavorre inesplorate.
Si ritroveranno a rischio di percorrere vite in bilico perché fallati nella capacità di sperimentarsi autenticamente liberi. Impossibilitati a generare felicità autentica per sé stessi e per gli altri.
E' ammissibile ritenere che il vortice di fragilità che stiamo vivendo ci abbia presi un po' alla sprovvista, dato che si è andato sviluppando in modo silenzioso, tra le pieghe della vita quotidiana di questi ultimi sessant'anni durante i quali l'entrata in vigore della legge sul divorzio e la contemporanea accelerazione mediatica hanno aperto la porta ad una esplosione di criticità. Tuttavia, se è vero che solo ora verifichiamo i danni subiti dai figli sballottati “da casa a casa” o da quelli parcheggiati in braccio a televisori, computer e play-station... resta il fatto che li abbiamo noi, educatori mandatari, lasciati soli ad inventarsi una strutturazione della personalità che è incompatibile con la solitudine del sé e con la mancanza di attività manuali. Non ci siamo resi conto che sessant'anni fa la presenza costante di figure di riferimento e la possibilità di esperimentare la propria creatività, permetteva una maturazione psichica spontanea nel pieno rispetto della successione richiesta dalla scala di Maslow2 . Mentre oggi, non appagati i bisogni del terzo e quarto gradino3, il bisogno di auto-realizzazione resta sospeso, privo di strumenti che permettano di avanzare con sicurezza verso l' ampliamento dell'esperienza. E i tentativi andati a vuoto si moltiplicano.
I ragazzi che oggi lamentiamo incapaci di alzare lo sguardo oltre l'invidiato verde del vicino o già costruttori di prepotenza, lo sono solo perché ignari del tesoro che nascondono e della possibilità che avrebbero di appropriarsene se condotti per mano. Non lo affermo io, ma la mia esperienza sul campo.

Senza fondamenta

Non direi che sia la ricerca del proprio centro il perno attorno al quale ruota da secoli l'evoluzione del nostro mondo occidentale.
Da sempre sproniamo gli individui a volgere all'esterno il proprio volto poggiando l' indice continuamente, Chiesa in testa,4 su : “Ama il tuo prossimo...”, “ Volgi su di lui il tuo sguardo...”. Del tutto dimentichi del: “...come te stesso” , “...dopo aver dato valore a te stesso”, “...dopo aver imparato ad amare te stesso”.
E come potrò amarmi se prima non avrò volto lo sguardo alla scoperta di chi sono? Come potrò collezionare stima di me?
Privo di fondamenta, sarò per forza impossibilitato a costruire! Compresa la capacità di amare gli altri.
Il mio amare te si restringerà ad essere solo l'alibi traballante della mia convinzione di esistere. Continuamente a rischio di soffocare entrambi, quando dovrebbe essere invece l'estensione feconda di una libertà costruita con gioia da me per me stesso.

Come possono gli adulti chiedermi di produrre del bene intorno a me, se prima non mi hanno fatto percepire che sono in grado di farlo? Se hanno solo continuamente ripetuto cosa “devo fare”, senza farmi accertare con mano che la mia mente, valida e originale, è in grado di fare ?
Posso aver ascoltato mille volte parlare di valori che devo interiorizzare... ma se non ho ancora costruito la capacità di dialogare con me stesso... Se non ho ancora fatta mia la consapevolezza di me, della mia mappa, e perciò della mia posizione percettiva... Come potrò fare miei: la determinazione, la ricerca del vero, la valutazione positiva del diverso da me, il sacrificio...?!!
In un mondo che stimola la mia mente fin dall'infanzia a lanciarsi continuamente fuori da se stessa alla rincorsa di migliaia di stimoli visivi, come posso immaginare che esista una condizione fondamentale chiamata consapevolezza che nasce da un percorso esattamente inverso ?
A che varrà scoprire a trent'anni che senza l'essere il possedere è solo menzogna, quando avrei dovuto sperimentare “nella carne” cosa significa essere, fin da bambino?
Questa società è gravemente malata perché gli individui che la compongono non sono stati incoraggiati nelle aule scolastiche a visitare l'interno di sé stessi e ad esserne fieri. Non sono stati spinti ad acquisire la certezza di possedere talenti personali, ed a costruire quella determinazione che è imprescindibile per il conseguimento di ogni meta.
Sono certa che sia la sindrome da AF la spia antesignana di qualunque disagio, e che la celerità con la quale potrebbe essere “scovata” e curata al suo primo manifestarsi, o ancor meglio, totalmente prevenuta nella scuola elementare e media, rappresenti la garante proporzionale della possibilità di insorgenza di future criticità.
Il problema è che in Italia non vengono predisposte programmazioni scolastiche specifiche per istruire a percepirsi ok. Né per impedire l'insorgere della sindrome da AF, né per stimolare sistematicamente l'originalità personale in funzione di un doveroso successo affettivo e lavorativo.
Sarebbe tempo di farci carico di una verità di cui ci siamo disinteressati troppo a lungo:
Non nasciamo fisiologicamente certi di essere ok.
Dobbiamo venire istruiti a percepirci ok.

Deve divenire priorità dell'insegnamento la preoccupazione di mettere tutto ciò come focus principale sotteso a qualsiasi tipo di attività didattica.

E' urgente che tutti i docenti inizino a chiedersi :
  1. In quale modo posso allenare i miei ragazzi alla percezione di sé5?
  2. In quale modo posso far costruire loro soddisfacenti immagini di sé?
  3. Mi sto preoccupando di offrire loro chiavi di felicità presente e futura?
1Dipende dal bacino di utenza della scuola interessata
2Vedi tavola corrispondente in fondo al testo
3 bisogni sociali di affetto e appartenenza, bisogni di stima auto ed etero
4E lo dico da cattolica fervente
5Cosa provo? Chi penso di essere? Perché mi sento così?